Una spada di Damocle cadde su me e Riccardo più di un anno fa: prima di provare l’esame per il primo Dan avremmo dovuto portare a casa una medaglia. Una sfida che mi ha subito impensierito, consapevole di quanto, nello shiai, la differenza tra vittoria e sconfitta sia questione di centimetri e di attimi.
Il kendo è un’arte marziale ‘tesa’, in più sensi: mentre nelle altre la flessibilità nell’uso di diverse tecniche ti permette di ribaltare – abbastanza facilmente – le sorti di un confronto, in questa non c’è spazio per l’improvvisazione. Solo riflessi e precisione ben addestrati ci consentono di colpire un istante prima dell’avversario: chi ha esercitato con più rigore queste due abilità difficilmente cede il passo all’altro, e spesso lo si nota fin dal saluto.
Sia quando siamo stati al Campionato Nazionale che al Seminario di Lubjana questa ‘verità’ mi si è palesata ad ogni sconfitta: spesso sono stato colpito più in fretta di quanto potessi rendermene conto. La via della spada è un lampo che va saputo intercettare in tempo, una saetta che in passato non risparmiava la vita; per cui, essere in grado di trarne insegnamento, ogni volta, è d’obbligo.
Il secondo meeting organizzato da Umi no Kenshi di Porto San Giorgio questa volta si è tenuto al palazzetto dello sport di Pedaso.
Inizio il riscaldamento in modo molto rilassato. Di solito il pensiero del combattimento mi risveglia, ma la testa era ancora altrove: ero turbato da questioni che lo scontro non poteva risolvere. Ma avevo a fianco Riccardo, compagno di squadra con una fiamma inestinguibile capace di contagiare anche me. A questo si aggiunga che in squadra ritroviamo due ragazzi alla prima esperienza di shiaigeiko: il dovere morale di sostenerli mi costringe a cambiare atteggiamento.
Arrivo così al primo shiai con una sensazione di rilassamento mai provato: quando è il mio turno di entrare nello shiai-jo non c’è ansia ad appesantirmi le spalle né paura di perdere; mi riecheggiano dentro solo le parole di Alessio: non importa se vinci o perdi, ma dimostra di essere pronto a dare tutto, a partire dal saluto. Un principio che non manco mai di rispettare, e non senza soddisfazione: imporre il mio semè con un kiai feroce e vedere l’avversario indietreggiare con lo shinai ‘tremolante’ mi diverte sempre. Con questa tecnica ‘divoro’ tre avversari di fila: mi sento forte, la malinconia lascia posto ad una sicurezza salda che mi spinge a dispensare consigli ai ragazzi della nostra squadra e ad esultare per Riccardo ad ogni ippon.
Al quarto incontro un ragazzino che mi arrivava al petto, sfodera lo shinai e si avvicina con passi tranquilli e decisi. Lo shinpan mi riprende: mi sono fermato troppo indietro rispetto alla linea. C’è qualcosa che non va.
Dal primo hajime il ragazzo mi salta addosso con una furia familiare, paro un men a stento: è piccolo ma veloce. Fatico a rimanere saldo in tsuba-zeriai e il mio shinai mi urta il men: è piccolo, veloce, ed è pure forte! Lo shinpan ci ferma: sono uscito dallo shiai-jo.
Dov’è finita tutta la sicurezza di poco fa?
Torno al centro dello shiai-jo con un ammonimento, ritrovo la giusta distanza. «È stato solo un caso – mi dico – mi sono lasciato ‘impietosire’ dalla taglia del ragazzo…».
Quel lampo mi assalta di nuovo al men, torniamo di nuovo in tsuba-zeriai. Devo reagire!
Ruggisco un kiai di intimidazione e lo spingo via senza trattenermi, la sua risposta è un altrettanto intimidatorio kiai e ci ritroviamo di nuovo in tsuba-zeriai. Percepisco la fine dello shiai-jo a un palmo dal tallone, non posso più indietreggiare ma non riesco più ad andare avanti. Lo shinpan mi salva: ci riprende per essere rimasti troppo in quella posizione. Un’opportunità per recuperare.
Mentre torno al centro cerco di pensare ad un punto debole: deve pur esserci qualcosa su cui posso lavorare… – lo shinpan alza la bandiera per farci ricominciare – …beh, fino ad ora ha fatto solo men!
– Hajime! – e lui torna all’assalto: paro il suo men, colpisco do, lo supero con il suono dello shinai che volevo sentire, non spengo il kiai, continuo anche dopo essermi girato. Il ragazzo mi insegue come se non fosse successo nulla. Lo shinpan alza la bandiera rossa. Do ari!

«Allora non è imbattibile, è solo un grumo di energia mostruosa. Devo contare sulla mia capacità di deviare le sue scariche elettr…» non faccio neanche in tempo a completare la frase nella mia testa che mi ha già fatto men. Siamo pari. Le gambe diventano pesanti, le braccia rigide, non sono più in centro. Lui gioca con la guardia, non riesco a vedere oltre il suo men.
È questo che significa affrontare un avversario in grado di farti superare i tuoi limiti?
Quindi è vero? Quando desideri qualcosa, la vita, l’universo – quel che è – ti pone davanti a sfide che, se superate, ti rendono degno di com-prenderla… Ma non fa sconti a nessuno. Sei tu, da solo, davanti a quell’ostacolo: superarlo o meno è una tua responsabilità.
Paro con un centesimo di secondo di ritardo: men arì per lui. È finita. Non ho saputo gestire tutta quella pressione.
Alla fine la medaglia è solo un pezzo di metallo: non ha alcun valore in sé; tuttavia ne acquista se si è in grado di mettere quel valore nell’azione che ci conduce alla vittoria. Credo che la ‘formula’ sia questa: non bisogna lasciarsi abbattere da quel lampo che può raggiungerti sulla via della spada; ma essere in grado di sostenerlo e farne propria l’energia per raggiungere un nuovo livello di forza: è solo così che un giorno, quando ti ritroverai tra le mani una medaglia, potrai essere certo che contiene quel potenziale.
Per alcuni sono solo le leggi dell’elettromagnetismo, per me, sono le leggi del kendo.
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